Adele senz'H
Racconto lungo

S. Dalì, Purgatorio, nono canto
"Mi suiciderò".
Questa breve frase rimbombava spesso, sordamente, nei pensieri di Adele. Aveva solo 30 anni e viveva nel terrore di morire. Soprattutto di non sapere né come né quando sarebbe accaduto.
Vedeva nel suicidio l'unica via di scampo, l'unica risposta a quel quando e quel come.
Aspettava il momento giusto e intanto meditava sul "come"; voleva essere lei stessa il carnefice. "Mi hanno fatta nascere senza che io lo avessi chiesto" - pensava - "avrò almeno il diritto di scegliere quando morire".
Nessuno era a conoscenza di questi pensieri e del suo "proposito". Al contrario, nessuno dei suoi conoscenti, parenti o amici l'aveva mai vista abbattuta o depressa o in lacrime; forse arrabbiata, a volte scontenta, alle prese con qualche problema più o meno grande ma niente di grave sembrava pesasse sulle sue spalle.
Come tutti del resto.
Viveva in una grande città, in una piccola casa, da sola. E da sola voleva trovarsi quando pensava alla morte. "La morte non è argomento da compagnia" - diceva - "va affrontata da soli, nessuno può capire la tua paura quando senti che la paura sta per arrivare".
Inoltre non voleva rattristare con i suoi pensieri scuri chi le era amico.
Lasciava però che gli altri rattristassero lei.
Quando usciva per le vie affollate del quartiere periferico dove abitava, ad ogni ora del giorno incontrava barboni, ubriachi senza equilibrio, bambini scalzi e con gli occhi sempre troppo grandi per essere un bambino e con vestiti sempre troppo larghi per quei poveri corpicini scuriti dalle loro origini e dallo sporco delle strade.
Vecchie pazze che gettavano sale grosso dietro le spalle e vecchie pazze che maledicevano l'umanità e predicavano la fine del mondo.
Adele ogni volta si chiedeva il perché di tutto quello e ogni volta ricacciava quelle domande senza risposta dove era giusto che stessero: dentro le scarpe, fra la pianta dei piedi e la suola, schiacciate e con il massimo del peso che un corpo potesse offrire loro.
Adele tornava a casa, in preda a uno dei suoi attacchi di malinconia, di quella che ti fa chiudere gli occhi fino a far uscire le lacrime in modo meccanico e tappare le orecchie e serrare le mascelle. Proprio come una delle tre scimmiette d'argento che Adele conservava con amore, ricordo dell'unico compleanno festeggiato quando era piccola. Gliele aveva regalate lo zio Arturo, che le aveva comprate in uno dei suoi numerosi viaggi in Oriente, appositamente per lei, per i suoi primi otto anni.
Conservava quel regalo dentro una vecchia cassapanca di castagno, in un angolo della piccola casa, insieme alle poche cose care che valeva la pena di guardare, di tanto in tanto e da usare come
madeleine, ora che molti ricordi cominciavano ad evaporare lentamente, così come alcuni di quegli oggetti cominciavano a scolorire e ad essere "intaccati" dalla forza distruttrice del tempo.
Un quaderno a quadretti ingiallito con delle foglie secche incollate, una per pagina.
Suo nonno, erborista ci aveva scritto di suo pugno il nome della pianta cui era appartenuta la foglia.
Un vestitino rosa, che aveva indossato per il matrimonio della zia Lina, insieme al cappellino della stessa stoffa e colore e la borsetta di paglia abbinata, con dentro un fazzolettino bianco con su ricamate da sua madre, a punto erba e in cotone rosa, A.Z. le sue iniziali...
Quando qualcuno le chiedeva come si chiamasse lei rispondeva: "Il mio nome e cognome sono il principio e la fine". Ma siccome nessun Edipo riusciva minimamente ad arrivare almeno al fatto che il suo nome iniziasse per A e il suo cognome per Z, alla fine lo diceva lei, evitando di trasformarsi in orrida Sfinge e di uccidere così chi avrebbe dovuto indovinare lo strambo quesito.
Dopo aver guardato, annusato, accarezzato ciascun oggetto come fosse le uniche cose che possedeva, dopo aver ricordato, per ognuno, i momenti in cui li aveva ricevuti o l'occasione in cui li aveva comprati, li riponeva tutti con cura, in ordine cronologico di appartenenza a lei. Poi si avviava verso il soggiorno e accendeva lo stereo.
L'unica cosa "moderna" in quel piccolo rifugio. Adele amava molto la musica, la considerava un antidoto per molti o quasi tutti gli stati d'animo negativi.
Il volume però, in certi momenti, doveva essere assordante e supplire il gesto del "tapparsi le orecchie" con le mani, fino quasi a stordire e a rendere il cervello capace solo di far entrare le note.
Spostava la manopola su LOUD, si rannicchiava sul lato estremo sinistro del divano e cominciava a piangere lacrime piccole, lucenti e silenziose. E pensava ad una cosa fra le tante strane che le venivano dette sempre da una sua prozia, quando lei era una bimba e la portavano in chiesa, "bisogna offrire il nostro dolore alle anime sofferenti del purgatorio".
Quando era piccola non capiva bene quella frase ma faceva quello che le veniva detto. Così ogni qualvolta cadeva dalla bici e si sbucciava un ginocchio, il dolore e il bruciore di quella ferita venivano "offerti" a quei poveri disgraziati di cui aveva visto le sembianze in certe tavole sulla Divina Commedia che la sua prozia teneva sulla toeletta della camera, vicino al piumino odoroso di cipria dolce.
E certe volte, probabilmente per l'autosuggestione, il dolore spariva quasi subito. "Mi sa che la sofferenza l'ho trasferita ancora di più su qualche poveraccio purgato" - le veniva da pensare e rideva alla parola "purgato" perché lo spirito "monello" che era in lei le faceva venire in mente una di quelle anime già sofferenti oltremodo, tali a causa di forti dolori di pancia.
Adele oggi non credeva più in quelle cose né in dio né in altro. Il dolore se lo teneva tutto per sé, senza offrirlo a nessun altro che non fosse lei stessa o la suola delle sue scarpe.
"Sto forse impazzendo?" - pensò quella volta, e con un gesto brusco della mano davanti agli occhi, cancellava tutte quelle immagini che le offuscavano la ragione. E sorrideva.
Si affacciò poi alla finestra, quella con la vista migliore, e guardando verso l'alto pregò il sole di non scomparire, per quel giorno.
Adele pensava a come sarebbe morta e si vedeva Jeanne d'Arc avvolta dalle fiamme; "Ma Giovanna credeva in dio" - pensava - "sicuramente non avrà sofferto... però è morta lo stesso" - aggiungeva la sua parte sarcastica - "e bruciata".
Quando si svegliava di notte, di soprassalto, a causa di un forte rumore che proveniva dalla strada o per un qualche incubo senz'aria, immaginava il suo funerale e uno per uno passava in rassegna ciascun partecipante di cui aveva la certezza della presenza in quell'occasione.
E quando ciascuno interpretava egregiamente la parte di disperazione che il copione di Adele prevedeva anche lei scoppiava a piangere, lacrime piccole e luminose e calde, che scendevano lungo le gote fino a che con il dorso della mano non le ricacciava in parte negli occhi.
"Ma io voglio essere cremata e voglio che la mia urna cineraria sia gettata in mare, dopo che un capitano maltese di una qualsiasi nave mi abbia sposata con l'acqua".
E rideva, perché l'unico matrimonio che avrebbe mai accettato sarebbe stato quello con l'acqua.
Sorrideva di nuovo e con un gesto brusco della mano davanti agli occhi chiusi cancellava il suo funerale.
Poi faceva come per rimettersi in sesto, si asciugava qualche lacrima rimasta ancora in vita, si riassettava il vestito, andava ad affacciarsi alla finestra, quella la cui vista notturna era verso nord e pregava.
Pregava la luna affinché illuminasse per sempre quella notte.
mf
Roma, 1991 / Viterbo, 2006