Me-tempo

Ho cominciato a scrivere almeno cinque volte qualcosa sul Tempo.
Ogni volta, dopo 20/30 righe ho strappato il pezzo di carta dal monitor e l'ho gettato nel cestino.
Ho un rapporto morboso, con il tempo, io.
Per me è soprattutto la misura, fra nascita e morte, con la quale si segnano, come tacche su un albero, avvenimenti importanti che hanno reso più gioiosa o più infelice la vita di un essere umano.
Lo misuro di norma in anni. L'anno in cui ho imparato a leggere e scrivere, paroline semplici, okay. Gli anni in cui mi sono misurata a scuola con i compagni di classe... spirito di competitività molto acceso, perché c'erano stati gli anni in cui avevo imparato cosa volesse dire "dolore" e, prendendo ogni giorno 10 e lode, una volta rientrata a casa, mi sembrava che certi dolori potessero affievolirsi, almeno per un po', sostituiti da un orgoglio materno al quale poi, più avanti nel tempo, con analisi meno emotive e più razionali, ho dato un significato diverso, accollandomi parte di quel dolore che ad oggi, a scadenza, o come un'effetto serra, è ancora è mio.
È l'anno delle vittorie nello sport, e quelle sì che venivano scandite dal cronometro dell'allenatore o da quello dei giudici di gara. Secondi velocissimi per gare di velocità, minuti spaccacuore per mille metri girati attorno al campo sportivo. Ore lunghe anni per maratone corse con l'orologio della prima comunione, quello d'acciaio waterproof che sbatteva sul polso ossuto, impregnandosi del sudore che fuoriusciva da ogni poro, soprattutto nelle salite assolate. Non ho mai capito perché la "vena malata" non sia scoppiata durante certi momenti, invece che in tutt'altra occasione.
Il momento dell'arrivo era sempre il momento più entusiasmante: VITTORIA, e anche se il tempo non era stato eccellente a 14 anni pensi che ne avrai così tanto davanti che il momento te lo godi tutto con una gioia incredibile.
Non totale, però... perché in tutto il tempo che hai dedicato a vincere, non hai mai avuto la soddisfazione di vederli lì, come facevano tutti gli altri, ad applaudirti e ad incitarti a pochi metri dal traguardo.
E non perché non avessero tempo, lo sai... ma perché lui il tempo lo stava sprecando con qualche baldracca a ore, brindando insieme con un vinaccio qualunque. E lei a casa, a soffrire in silenzio, stupida donna molle, ad aspettare, guardando il suo orologino dal quadrante piccolo e rotondo, il tuo rientro col trofeo da mettere sopra la credenza in soggiorno, a diventare un raccoglitore di polvere e testimonianza di un tempo che di lì a poco non sarebbe più stato.
Anni dopo, leggendo
un libro, hai capito che tempo addietro avresti voluto essere come il piccolo vecchio strano saggio bambino del libro,
Piccolo Padre Tempo, e dopo aver preso tempo e coraggio avresti dovuto agire come lui. Hai presente anche quando: il momento giusto, il tempus optimus, quando loro erano andati via per qualche giorno e tu sapevi perché. I piccoli si fidavano di te e tu sapevi scrivere molto bene, anche se non in inglese. Dopo aver messo fine al loro tempo, su un foglio bianco la scritta in nero, col pennarello a punta grossa, "
Fatto perché eravamo in troppi".
Dopodiché anche il tuo tempo, avrebbe avuto fine.
Ma così non è stato e ora hai speso del tempo per riscattare il tempo.